martes, 24 de marzo de 2009

Le donne hanno un`anima? Nuovamente sulla cittadinanza via materna.


Di Prof. Horacio Guillén
Con questo titolo, Oscar Batoli, nel suo block, riproduce un documento su Bernardo Rategno, detto anche Bernardo da Como, frate domenicano e "grande inquisitore" morto nel 1510. Nel suo libro "De strigiis", il frate spiega che all`epoca la Chiesa Cattolica non riconosceva alle donne... un`anima, perché le considerava "strumento del demonio" per la dannazione degli uomini, che, nel solo vederle, subivano... la tentazione del desiderio! Tale visione, si cita, è ancora molto forte in alcuni gruppi del cattolicesimo, probabilmente dal fatto che l’unica Bibbia presente in Itala è la Vaticana, ma è stata “scoperta” proprio in Vaticano nel 1870, solo dopo la presa di Porta Pia, Bibbia questa che è in linea con idee contrarie al ruolo che le donne avevano svolto nella diffusione del vangelo.
Ricorda il documento che Tertulliano, San Geronimo, Sant’Odo da Cluny e Sant’Agostino, il peccatore pentito, che, prima di diventare vescovo di Ippona, aveva praticato tutte le perversioni sessuali di questo mondo, riempirono pagine e pagine di espressioni, che oggi sarebbe vergognoso rivolgere persino ad un animale: "Abbracciare le donne è come abbracciare un mucchio di letame, la donna è figlia della falsità, sentinella dell`inferno, nemica della pace, la donna è la porta dell`inferno, la strada che porta all`iniquità, la puzza dello scorpione". Aggiunge che mentre nel mondo cattolico la donna era demonizzata, nel mondo protestante si è cercato di valorizzare le donne, anche nel ruolo di finte streghe, con la festa di Halloween che “rende in qualche modo giustizia… come una rivalsa sociale e forse anche storica”.
È vero che “in questo mondo dove la pubblicità fa tendenza, le questioni vengono definite da quelli che la sparano più grossa”, anche se si perde la verità.
Così, la sparatoria d’alcuni media, e d’alcuni parlamentari, contro la decisione della Cassazione, a Sezioni Unite, con Sentenza del 26 febbraio 2009, n. 4466, si centro nel rilevare che:
1.Basta una nonna per diventare cittadino italiano.
2.Ci sarà un’invasione di richiedenti davanti i consolati.
3.I nuovi cittadini non hanno quasi nulla d’italiani.
Sé basta un nonno per diventare cittadino italiano, perché non deve bastare una nonna allo stesso scopo? Il titolo è – almeno – capzioso. Si sa, tutta nonna italiana non può non essere figlia di padre italiano. Non è nata per generazione spontanea. Saprà questa gente quanti cittadini si sono scritti, essendo nipote di una nonna italiana e, perciò, bisnipoti di un cittadino italiano.
Se Piero Rossi è il padre di Maria Rossi, e questa ha avuto due figli uno nel 1947, Mario e l’altro nel 1948, Franco, perché scandalizzarsi che la figlia di Mario possa avere la cittadinanza italiana invocando la cittadinanza di Maria Rossi (questo caso è uguale al risolto dalla Cassazione), se tutti i figli di Franco hanno già potuto scriversi come cittadini, invocando la stessa discendenza. Io sono nipote di un italiano, il padre di mia madre. Come nato in precedenza al 1948 ho dovuto fare causa per diventare cittadino. Anche sono nipote di una nonna italiana, sarò rimproverato per questo dai nemici dell’eguaglianza?
Diciamolo con tutte le lettere: il titolo occulta l’intenzione di discriminare, e se non è così, perché è stato formulata di questa forma? Ci sarà una cataratta di richiedenti davanti ai consolati.
Nonostante questa affermazione, nessuno sa precisare quanti sono i nuovi diritti aventi alla cittadinanza italiana. Milioni?, centinaia di mila? Chi ne può precisare con certezza.
Si può soltanto parlare di che percentuale su quelli che, fino adesso, hanno fatto richiesta della cittadinanza. Di questa forma si può calcolare nel dieci per cento. Perché?
Perché la discriminatoria spartiacque, prodotta dal Parere n. 105/83 del Consiglio di Stato, che vieta la trasmissione via materna per i nati in precedenza al 1948, solo affetta – in linea generale - ai discendenti di quei che emigrarono fino l’anno 1920, perché le figlie devono essere nate fino al 1925, per avere, alla sua volta, figli nati in precedenza al 1948.
Un’altra volta l’affermazione tratta di risaltare gli aspetti negativi della questione, allarmando sulla possibile “cataratta” di nuove richieste.
I nuovi cittadini non hanno quasi nulla d’italiani. Adesso venimmo a sapere che esiste un “italianometro”, specie di strumento di precisione, che misura quanto d’italiano ha un aspirante alla cittadinanza del Bel Paese.
Non ci sono state notizie che tutti i discendenti degli emigrati, che fino adesso si sono iscritti come cittadini italiani, siano stati sottomessi alla prova d’italianità, che tale strumento farebbe possibile per determinare quanto di italiani avevano per meritare essere cittadini.
Per ogni nuovo diritto aventi, sono altri nove che hanno potuto acquisire la cittadinanza italiana, e per ogni uno di quelli che si presente adesso ad un consolato, si sono già presentati nove, durante i sedici anni di vigenza della Legge 91/92.
Se questa gente è adesso allarmata dalle conseguenze che potrebbero portare la esistenza di nuovi diritti aventi alla cittadinanza italiana, in vista del fatto che non conoscono la lingua e la cultura peninsulari, non si è mostrata preoccupata quando il numero di diritti aventi decuplicava ai nuovi possibili cittadini.
Voglio calmare a chi è allarmato: Buenos Aires, tra le dieci città italiane più popolati del mondo, non supererà né Milano, né Torino, né Roma con l’incorporazione dei discendenti delle donne, fino adesso discriminati.

Adesso mi presento
Per chi non mi conosce: mi chiamo Horacio Guillén, sono nato a Buenos Aires nel 1944, figlio di Maria Grazia Montaperto, pure nata a Buenos Aires e sposata ad un argentino, mio padre. Mio nonno, Vincenzo Montaperto, arrivò a queste terre, proveniente della sua Nicosia natia, con i suoi genitori e i suoi fratelli nel 1894, sposando qua una paesana. Nel mio caso, non c’è stato bisogno di mia nonna, ma di mio avo materno, essendo pure mia madre nata cittadina, fatto che smentisce il rimbombante titolo delle media. Pure se non scrivo mica bene l’italiano, sono autore de l’unico libro che si sofferma sul problema della via materna e, credo. l’unico sulla cittadinanza italiana, scritto da un oriundo. Ho studiato durante dieci anni la giurisprudenza e la dottrina degli autori in materia. Ho collaborato con alcuni dei progetti di legge - presentati nella passata e nell’attuale legislatura – dai parlamentari eletti all’estero. Sono, avvocato e professore universitario e, pure, direttore del Corso Superiore di Legislazione Italiana, nella U.M.S.A. Ho parlato in Italia, in convegni e conferenze sul tema. Ho vinto la mia causa, per diventare cittadino, in precedenza alla sentenza n. 4466, delle S.U. della Suprema Corte di Cassazione.
Sono disposto a sottomettermi alla prova del “italianometro”.
De lege ferenda.
Che i commentari avversi – anche quando tendenziosi - provengano della gente che non ha studiato in profondità la questione non mi preoccupa. Mi preoccupa che provenga dei parlamentari che – attento la posizione che hanno nei loro partiti - dovrebbero sapere che i viaggi che fanno ai paesi dove sono assentate le più numerose comunità d’italiani fuori patria, non devono avere come obbiettivo principale conoscere il ghiacciaio Perito Moreno, o le cascate dell’Iguazu, il gran cannone del Colorado, o navigare il corso dell’Amazonia. Non deve essere il fine principale cacciare leoni in Africa o struzzi in Australia, ma approfondire la conoscenza tanto dei problemi che tali comunità hanno, come delle risorse che significano, e quando di temi giuridici si tratti, prima di parlare, consultare con gli esperti in materia. Sarebbe auspicabile, pure, che i parlamentari fossero stati preoccupati dalla mancanza di adempimento da parte d’Italia, dei patti internazionali firmati, riguardo la discriminazione delle donne, come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948, la Conferenza di Roma del 1950 che creò la C.E.D.U., e la Dichiarazione di Lisbona approvata dal Parlamento Europeo nel 2008.
Se c’era bisogno di limitare la cittadinanza non credo che la discriminazione sia la via adeguata a percorrere. L’equiparazione totale della donna all’uomo, e la richiesta di requisiti agli aspiranti alla cittadinanza italiana, sarebbe stata la strada corretta. Perché, dunque, non è stato questo proposto da nessun parlamentare in tutti questi anni? Era più comodo lasciare tutto così com’era, e adesso indicare come colpevoli ai giudici. Colpevoli di cosa? Di fare giustizia?