miércoles, 28 de abril de 2010

In un libro tutti i segreti del dialetto siciliano


di Antonino Cangemi
Perché, nel dialetto siciliano, si dice “lassari ntrìdici”? Che cosa comporta l’èssiri nto ballu i virgini? Perché una persona di poco conto si definisce “bannera di cannavazzu”? Da dove deriva il saluto “voscenza binidica”?
Se vi interessa scoprirlo e vi incuriosiscono i modi di dire del vernacolo siciliano, dai più noti a quelli arcaici, oggi poco diffusi, non vi resta che andare nelle librerie.
Vi troverete un volume, dal titolo già accattivante, “Semu ricchi e nuddu u sapi”, un detto che compendia l’ironia dei siciliani.
L’autore è un medico palermitano appassionato della nostra lingua, Pietro Moceo; l’editore Dario Flaccovio. In questi ultimi anni sono state date alle stampe diverse raccolte di proverbi dialettali o di sicilianismi. “Semu ricchi e nuddu u sapi” non è, però, una mera silloge di locuzioni siciliane. Le varie espressioni, dalle più colorite e particolari a quelle più comuni, nel libro di Moceo sono ricomprese in capitoli ( “auguri”, “comu po’ essiri un masculu”, “comu po’ essiri una fimmina”, “comportamento-modi di essere e/o agire”, ect) di modo che da esse emerga, in modo organico, la sicilianità di cui sono intrise. Alle singole voci, poi, si accompagna il commento dell’autore, tante volte ispirato da una sobria e gradevole ironia. Tali chiose possono esaurirsi nella semplice spiegazione delle espressioni. Più spesso, tuttavia, si soffermano sulla loro etimologia, formulando interessanti ipotesi; oppure ricostruiscono storicamente come quella o quell’altra massima sia nata e abbia assunto un determinato significato.
Si apprende così come “lastimiari” derivi dallo spagnolo “lastimar”, lamentarsi, alla “sansavò” dal francese “san facon”. Che molti detti riconducono alla lingua greca: “catàmmari, càtammari, lentamente, da “kathemèroo”, io calmo; latina: “vurricari”, seppellire, da “vulvicare”; o araba: “cabbasisi”, letteralmente scatole, da ”habb (bacca) e “hazis” (rinomata), frutti ovali ricoperti di peluria di una pianta africana. Peraltro, detto lavoro filologico, che è uno degli aspetti salienti del testo, è condotto dall’autore senza ergersi a studioso della lingua siciliana, indicando come probabili le origini delle frasi che esamina.
E senza appesantire la lettura in lunghe disquisizioni. Sulle corna, tanto presenti nei detti siciliani, Moceo ci rende edotti che esse nel mondo antico simboleggiavano forza e virilità, tanto che se ne fregiavano il capo i sovrani e ornavano le divinità. A decretare un inversione di rotta sul loro significato e a far sì che assumessero valore spregiativo legato al tradimento contribuisce la leggenda dell’imperatore di Costantinopoli, Andronico Commeno. Costui faceva arrestare i suoi nemici e, dopo averne possedute le moglie, lasciava nel luogo del misfatto, teste di cervi o di altri animali cornuti. Questo e altro svela il piacevole libro di Moneo, che ha il merito, tra gli altri, di tenere desto l’interesse per il dialetto siciliano. E’ già tanto in tempi di dilagante consumismo e pasoliniana omologazione culturale.